Pubblichiamo una lunga testimonianza che ha scritto per questo blog Giulio Savelli, ex studente del Liceo Unitario Sperimentale di Roma. Per comprendere quanto di libertario, di già descolarizzato ci fosse in quella esperienza, non c'è nulla che possa aiutare di più che il racconto di chi in quella scuola ha vissuto per anni. Ringrazio Giulio, che ho conosciuto qui sulla Grande Rete Globale, per la disponibilità, per la cortesia e soprattutto per la carica umana che mi ha già dimostrato, segno che qualcosa di buono quel tipo di apprendimento libero e comunitario lo ha comunque lasciato.
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Un’esperienza da ricordare: il Liceo Unitario
Sperimentale
Non saprei dire se la definizione di “scuola libertaria” possa
applicarsi senz'altro al Liceo Unitario Sperimentale. Di fatto una
scuola libertaria lo è stata, ma non si è mai definita esplicitamente tale, e
probabilmente neppure ha inteso esserlo. Al principio intendeva essere un
esperimento didattico innovativo, poi anche, e forse soprattutto, un soggetto
politico – simile a un soviet – parte attiva di una lotta più ampia. A
posteriori, però, mi pare che la libertà quasi assoluta di cui ha goduto chi è
stato studente di quella scuola strana sopravanzi di gran lunga ogni altro
aspetto. Una libertà così singolare e inaccettabile – allora e oggi - da essere
forse un caso di eterogenesi dei fini. La libertà, in ogni caso, è stata il
motivo per cui ho amato il Liceo Unitario Sperimentale.
Non tutti hanno amato quella libertà, e lo ricordano in altri termini.
Per esempio, Francesca Archibugi, che l’ha frequentato (così come i suoi
fratelli) lo definisce con queste parole: «una scuola incasinata che all’epoca si disse
che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in
linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria
Montessori». E continua ricordando:
«Riccardo Barenghi, che è stato direttore del “manifesto” e ora
scrive sulla “Stampa”, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro ,
figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta
Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali,
figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. Adesso, per mia figlia, ho
scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile». [1]
La sede occupata del Liceo Unitario Sperimentale alla Bufalotta |
Una
scuola incasinata lo Sperimentale, senz’altro. Nata all’inizio degli anni
Settanta era piena di ragazzini (io li ricordo ragazzini, non ragazzotti)
usciti dalle medie Montessori. La preside, la professoressa Pecchia ,
guida carismatica dello Sperimentale nei suoi primi anni, era una cattolica di
sinistra vicina alla presidente dell’Ente Montessori, Eleonora Moro. I
montessoriani – come li chiamavamo noi originari di altre scuole – facevano
gruppo chiuso. E provenivano da un ambiente relativamente omogeneo, piuttosto
elitario sia per cultura sia per reddito sia per collocazione politica. La
leggenda vuole che per loro e solo per loro fosse nata quella scuola - che
sarebbe però presto diventata qualcosa d’altro, molto più complesso e appunto
incasinato. Certo lo Sperimentale non è stato un modello performante, per così dire, sotto il profilo dell’apprendimento
standard e pensarlo accanto ai test Invalsi è se non altro straniante. Ma è
stato, per me e forse per qualcun altro, la salvezza.
Io
non sopportavo la scuola tradizionale. Le medie che avevo frequentato erano quelle
di una sezione perbene (con alta percentuale di predestinati liceali, cioè) di
un quartiere perbene di Roma, negli anni Sessanta. Il programma di storia
finiva con la
Prima Guerra Mondiale – per evitare di toccare il fascismo,
argomento troppo divisivo. L’educazione era formale - una professoressa,
addirittura, ci dava del lei. Si studiava sodo, si bocciava il giusto. In terza
media avevo osato dichiarare che una poesia che ci era stata data – di Aleardo
Aleardi – non mi era piaciuta, e ne era nato un grande scandalo, che si era
riverberato per un pezzo nei commenti allibiti di tutti gli insegnanti che
varcavano la soglia dell’aula. Io non accettavo la scuola, che mi procurava un
dolore indicibile. Non tolleravo di dover fare ciò che mi veniva ordinato, non
sopportavo di essere misurato con un numero, non capivo il senso di ciò che mi
veniva insegnato, e mi impuntavo come un mulo. Andavo avanti come quei cani che
tenuti per il guinzaglio vengono trascinati dal padrone e rischiano di
strozzarsi, ma non cedono. Ero stato congedato dalle medie con “buono”, ma era
evidente che il mio destino scolastico di buono mi avrebbe riservato ben poco.
Era
l’estate del 1972 quando i miei vennero a sapere dell’esistenza di quella scuola così
particolare, con metodi d’insegnamento più liberi, sperimentali. Avevano pietà
per le mie sofferenze e decisero di rischiare. L’iscrizione non fu uno scherzo.
La fama del Liceo Sperimentale, a due anni dalla sua nascita, si era diffusa
per Roma, e le richieste d’iscrizione superavano di gran lunga i posti
disponibili. Ci fu un genitore che, tre giorni prima dell’apertura delle
iscrizioni, decise che ritornare il giorno successivo sarebbe stato troppo
rischioso, e decise di fermarsi lì. Davanti alla scuola. La voce si sparse
velocemente e in poche ore si formò una fila sul marciapiede di via Livenza,
prima sede del liceo. I genitori rimasero per strada tre giorni e tre notti,
accampati, con coperte e brandine. Dal Liceo Sperimentale ci si aspettava
molto, e molti sacrifici si potevano fare per lui. Questa fila – mai atto
burocratico fu più intriso d’amore – è stato l’atto mitologico di nascita del
vero Sperimentale e l’inizio di una dépense
allora inimmaginabile.
(di Giulio Savelli, continua --> )
[1] Intervista a Francesca Archibugi in Registi d’Italia, Milano, Rizzoli, 2006,
ora in rete a questo indirizzo
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