sabato 18 settembre 2021

Chi educa dovrebbe avere uno sguardo fertile (Antonio Vigilante)

"La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli"

Occorre leggere e rileggere, pensare e ripensare all'articolo pubblicato da Antonio Vigilante su Medium a questo indirizzo.
"Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile". Difficile dirlo in modo migliore.

martedì 3 agosto 2021

La nostra idea di scuola è ottocentesca

Il nostro modello scolastico e didattico è ottocentesco, c'è poco da discutere. Il problema è che ha consapevolezza di ciò solo una modestissima parte degli insegnanti. Ma il problema più grande è che una forma di sapere ottocentesco, se paralizza la scuola, paralizza di conseguenza la società. Che infatti resta profondamente ottocentesca. Non siamo conservatori e passatisti per caso. Lo siamo perché lo è innanzitutto la scuola.

Da leggere un bell'articolo pubblicato da Roberto Maragliano su Garr News a questo indirizzo

"Registriamo un ritardo storico, su questo fronte, è doloroso ammetterlo. Le idee di scuola e di università e dunque di didattica su cui poggiamo molti dei nostri ragionamenti, anche quelli di valorizzazione del digitale, appartengono più al diciannovesimo che al ventesimo secolo, sono più debitrici ad un modello di stabilità ed intoccabilità del sapere, e dei suoi presupposti, e meno ad un modello di instabilità e permeabilità delle conoscenze e delle esperienze".

mercoledì 30 giugno 2021

Premi e castighi per i nostri bambini (di Maria Montessori)

Ero stata io pure sotto l'illusione di uno dei più assurdi procedimenti dell'educazione comune: avevo creduto anch'io che per spingere il bambino a uno sforzo elevato di lavoro e di tranquillità fosse necessario di incoraggiare con un premio esteriore i suoi bassi sentimenti, come la ghiottoneria, la vanità e l'amor proprio. E fui io pure stupita, constatando poi che il bambino a cui è permesso elevarsi abbandona spontaneamente i suoi bassi istinti. Allora esortai le maestre a desistere dai comuni premi e castighi - che non erano più adatti ai nostri fanciulli - e a limitarsi a dirigere dolcemente il loro lavoro. 

Ma niente era più difficile per la maestra che rinunciare a vecchie abitudini e ad antichi pregiudizi. 

Specialmente una di esse si industriava, quando ero assente, a rimediare alle mie idee, introducendo un po' dei metodi ai quali era stata avvezzata. Così un giorno, in una visita improvvisa, sorpresi un bambino, tra i più intelligenti, con una gran croce greca d'argento sostenuta da un vistoso nastro bianco appuntata sul petto; e un bambino seduto in una poltroncina in mezzo alla stanza. 

Il primo era stato premiato, il secondo era in castigo. La maestra, almeno in mia presenza, non interveniva con nessuna azione, così le cose rimasero come le trovai. Tacqui, e mi misi a osservare. Il bambino della croce si muoveva avanti e indietro trasportando oggetti dal suo tavolino al tavolo della maestra, affaccendato e intento; e passava più volte innanzi alla poltroncina del castigato. Gli cadde in terra la croce e il fanciullo della poltroncina la raccolse e la guardò bene da tutti i lati, poi disse al compagno: «Vedi che t’è caduto?». Il bambino si voltò e guardò l’oggetto con indifferenza; la sua espressione sembrava dire: «Non m’interrompete» e la voce disse: «Che me ne importa?». «Non t’importa?» soggiunse con grande calma il castigato. «Allora me la metto io.» E l’altro rispose: «Sì, sì, mettila tu» con un tono che sembrava dire: «Ma lasciami in pace!». Il ragazzo della poltrona si appuntò lentamente la croce sul petto, la guardò bene, e si accomodò sulla poltroncina più comodamente, distendendo le braccia sui braccioli. Le cose rimasero così, ed era giusto. Quel pendaglio poteva soddisfare il castigato, non il bambino attivo, contento del suo lavoro.

[M. Montessori, La scoperta del bambino]

lunedì 19 aprile 2021

"Ecologia del potere" di Antonio Vigilante: la maieutica reciproca

"Ecologia del potere" di Antonio Vigilante (Edizioni del Rosone, 2012) è uno di quei libri che non possono mancare nelle librerie degli  educatori libertari. Bisognerà leggerlo e discuterne molto delle idee contenute in questo volume, e in particolare della "maieutica reciproca", che resta una delle poche possibilità che abbiamo per - mi azzardo a dire - una "scuola del potere" che cancelli la "scuola del dominio". Il libro è disponibile gratuitamente in pdf a questo indirizzo.
Riporto per ora solo una pagina tratta dall'introduzione dell'autore:

Nel settimo capitolo mi soffermo sulla maieutica reciproca. Una distinzione centrale in Dolci è quella tra trasmettere e comunicare. Si ha semplice trasmissione, e non comunicazione, quando il messaggio va dall’emittente al destinatario, senza che quest’ultimo abbia la possibilità di replicare. È trasmissione, dunque, e non comunicazione quella della televisione e dei giornali. In questo senso Dolci afferma che la comunicazione di massa non esiste. Nella comunicazione autentica c’è lo scambio reciproco, il parlare ed ascoltare. Ma non basta: occorre che ci sia anche la volontà di mettere le cose in comune, di accettare pienamente l’altro, di dire la verità; di più: di cercare la verità insieme agli altri. È quello che avviene nei gruppi maieutici, che sono gruppi per la ricerca della verità che diventano inevitabilmente anche politici, poiché cercare la verità vuol dire opporsi attivamente all’errore ed alla menzogna. Nato come strumento di empowerment, il metodo della maieutica reciproca si dimostra uno straordinario metodo educativo, che Dolci cercherà di applicare alla educazione primaria nel centro educativo di Mirto, una iniziativa degli anni Settanta che avrà un successo solo parziale, ma nella cui sperimentazione affiorano spunti pedagogici di grande interesse, che possono ancora oggi essere ripresi e valorizzati.

giovedì 12 marzo 2020

La scuola come dispositivo (Pier Cesare Rivoltella)

Gli storici sanno che la scuola, così come noi la conosciamo, è una creazione dello Stato moderno che funziona come un dispositivo. "Dispositivo" è termine foucaultiano che vuole dire macchina, meccanismo; il filosofo francese lo usa per descrivere il funzionamento di quelle che lui chiama "istituzioni totali", come il carcere e le case di cura. 
Dire della scuola che è un dispositivo significa dire che è una macchina il cui funzionamento serve a raggiungere determinati obiettivi: la socializzazione, la riproduzione culturale, lo sviluppo di cittadinanza e di identità nazionale. Vale per la Scuola Repubblicana in Francia, vale per la scuola italiana dalla Riforma Gentile a oggi. 
Il dispositivo-scuola funziona su alcuni assunti: la trasmissione della cultura; il rispetto dell'insegnante; l'ordine, la disciplina; il sistema dei voti a sostegno di promozioni e respinzioni. L'insegnante, come il dirigente, dentro questo dispositivo è cresciuto per anni come studente e poi si trova a operarvi come professionista dell'educazione. Il rischio che del dispositivo assuma in maniera implicita e irriflessa tendenze e caratteristiche è forte: esse si fissano come un habitus dal quale è difficile prendere le distanze. questo spiega la difficoltà della scuola ad accettare il cambiamento, la sua resistenza al nuovo. La forza del dispositivo sta nella sua capacità di riprodursi e consolidarsi senza distinzione generazionale: e infatti spesso è facile incontrare giovani insegnanti assolutamente intransigenti, molto meno flessibili e disponibili di loro colleghi con una maggiore anzianità di servizio. Anche i genitori, che spesso contestano la scuola, prendono posizione in favore dei figli proteggendoli a oltranza, nutrono diffidenza nei confronti degli insegnanti, fanno fatica a non considerare la  scuola come dispositivo: cresciuti in essa e modellati dalla scuola-dispositivo, è facile che siano i primi a non accettare una proposta alternativa proprio perché diversa da quanto introiettato in anni e anni di scuola. Eccoli allora protestare perché "si è indietro con il programma", l'insegnante non fa lavorare come dovrebbe, perché il figlio non "produce" abbastanza quaderni", perché la maestra dei figli di loro amici è "più avanti". Come si capisce, l'unica possibilità è di provare a forzare il dispositivo. Qui si ritaglia lo spazio dell'innovazione e il significato profondo dell'adozione di metodologie alternative: si tratta di scelte che, se fatte con serietà e radicalità, vanno a supporto di processi di riflessività organizzativa che non possono che portare fuori dai limiti angusti del dispositivo.

Pier Cesare Rivoltella, Un'idea di scuola

mercoledì 4 dicembre 2019

Qualche domanda a Hugues de Varine su ecomusei, educazione e Paulo Freire (a cura di Antonio Saccoccio)

(Antonio Saccoccio) Caro Hugues de Varine, io credo che l’aspetto educativo sia fondamentale nel processo ecomuseale. Anche tu hai parlato molto spesso di questo. In particolare, citi frequentemente il pensiero pedagogico di Paulo Freire. Lo chiami “il mio maestro”. Quando e come è nata questa tua predilezione?
(Hugues De Varine) Tra il 1970 e il 1974, ho partecipato a titolo volontario e militante alla creazione e allo sviluppo di una ONG internazionale d’iniziativa francese, chiamata INODEP (Istituto Ecumenico per lo Sviluppo dei Popoli), fondata da alcuni missionari cattolici e protestanti nello spirito dell’enciclica Populorum Progressio e di uno dei suoi redattori Louis-Joseph Lebret. Noi abbiamo scelto come presidente Paulo Freire, che era al tempo in esilio in Europa e consigliere del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra. Lui ha accettato e durante gli anni seguenti non solo ha presieduto formalmente l’INODEP, ma ci ha anche insegnato le sue idee e i suoi metodi. E naturalmente io ho letto i suoi libri tradotti in francese. Ci ha aiutato a concepire gli obiettivi e i programmi dell’INODEP, in America Latina, in Africa e anche in Asia. Poi, quando io ho lasciato l’ICOM che guidavo per andare a lavorare in provincia, ho lasciato l’INODEP dove avevo presieduto l’associazione francese che gestiva il tutto. Nel 1972, quando preparavo la Tavola Rotonda di Santiago, ho domandato a Paulo Freire se avrebbe accettato di essere il principale relatore dell’incontro e lui ha accettato. La mia idea era che riflettesse sul museo come aveva riflettuto sulla scuola. Ma il governo dittatoriale brasiliano ha posto il veto. Poi, ho rivisto Paulo Freire un’ultima volta, un po’ a lungo, da lui, a San Paolo nel 1992. E poi, avendo lavorato molto in Brasile su progetti comunitari e patrimoniali, ho ritrovato le sue idee che sono laggiù molto spesso messe in pratica in numerosi ambiti. Attualmente, sono in corso molti master o tesi in museologia che prendono spunto dalle idee di Paulo Freire.
 (A.S.) Tu hai appreso dal pensiero di Paulo Freire il concetto di “cultura viva”. In particolare, con Arlindo Stefani, uno degli allievi di Paulo Freire, hai elaborato una grandiosa utopia intitolata “cultura viva e sviluppo”. Di cosa si tratta?
(H.d.V.) È un’idea che abbiamo avuto, Arlindo e io, in Francia alla fine degli anni Settanta, per sperimentare metodi di sviluppo locale partecipativo, e che abbiamo applicato a diversi progetti sul territorio, in particolare nelle case dei lavoratori immigrati e nelle case popolari. Si trattava di partire dall’osservazione partecipata della vita quotidiana, dalle persone stesse, per portarle a presentare proposte concrete e applicarle nella loro vita quotidiana e nei territori. Ciò che noi chiameremmo in portoghese “capacitação” o in inglese “empowerment”. Si trattava di far prendere coscienza del sapere di ciascuno in un approccio collettivo o condiviso, per prendere quindi fiducia nella loro capacità di risolvere problemi reali ma semplici, poi spostarsi progressivamente verso la soluzione di problemi sempre più complessi. E un processo lungo e lento, molto impegnativo in termini di fiducia, competenza linguistica, con pochissimi mezzi tecnici e molto spesso senza alcun supporto da parte delle autorità. E un’utopia realistica, poiché abbiamo mostrato che funziona, ma nessuno ci crede perché oggi bisogna andare sempre più veloci e ottenere risultati. Tutto questo sembra un po’ come fare dell’omeopatia sociale.
(A.S.) Per coloro che si occupano di ecomusei, è molto importante distinguere l’educazione bancaria dall’educazione liberatrice. Perché?
(H.d.V.) Il museo tradizionale, come la scuola, dalla primaria alla superiore, mira a imporre delle conoscenze, con metodi più o meno sofisticati (detti “pedagogici”), ma procedendo sempre dall’alto in basso. E un modo per garantire ai visitatori il riconoscimento di oggetti, opere, documenti, tradizioni, conoscenze che sono state scelte e definite da alcuni studiosi, portatori delle discipline accademiche (storia dell’arte, storia, archeologia, etnologia, scienze della terra, tecnologie etc.). Per la maggior parte dei visitatori è una forma di assimilazione culturale alla cultura alta. Come l’apprendimento della lettura o della scrittura a scuola, è importante per garantire una sorta di minimo vitale, ma la cultura “generale” così comunicata è essenzialmente morta, ad eccezione di una certa percentuale di visitatori che hanno ereditato o acquisito codici e chiavi, e che hanno il tempo e i mezzi per farli funzionare. D’altronde, le statistiche mostrano che meno del 10% della popolazione ha accesso a questi saperi, anche solo perché gli altri non ne sentono il bisogno. Restano i turisti che costituiscono la grande massa del pubblico dei musei e dei siti storici, ma questa è un’altra storia, che ha a che vedere piuttosto con curiosità e piacere. Questo è il motivo per cui si può chiamare questa museologia “bancaria”: accumula conoscenze, impressioni ed emozioni su “conti culturali” individuali che sono più o meno dormienti. Solo un numero molto limitato di conti produrrà (creerà o diventerà creativo).
Il museo liberatorio (ecomuseo, museo comunitario, etc.) procede in modo differente. Parte dalla condizione delle persone, nella loro comunità di vita e/o di lavoro, sul loro territorio, dai loro saperi, dalle loro credenze, dalle loro capacità d’immaginazione, d’iniziativa, di cooperazione, per produrre sviluppo sociale, culturale, ambientale, economico. Il patrimonio non è un obiettivo, ma un materiale, uno strumento, un capitale che la comunità impara a conoscere, ad apprezzare per le sue diverse qualità, e a utilizzare o trasformare, per rispondere ai suoi differenti bisogni, collaborando alla pari con le autorità locali. Questa è l’intera questione della sussidiarietà. Conosco molti ecomusei italiani che hanno già ottenuto risultati notevoli rispettando, a volte senza saperlo ma spontaneamente, questo genere di metodi.
(A.S.) Hai affermato che lo sviluppo sostenibile esige una partecipazione consapevole e informata dei cittadini. Ma la democrazia rappresentativa abitua i cittadini a delegare e non a partecipare. Come può essere risolto questo problema ? È per te un problema politico o educativo?
(H.d.V.) È essenzialmente politico e lo si comprende meglio quando si osservano alcuni musei realmente comunitari, come in America Latina, o alcuni musei autoctoni/indigeni in Brasile o in Canada. Esistono solo due modi per raggiungere uno sviluppo locale sostenibile, quindi necessariamente partecipativo, cioè con una co-decisione: o il potere (locale) accetta di essere condiviso con le forze vive della popolazione (la comunità); o la comunità stessa conquista il diritto di condividere la decisione attraverso la negoziazione, la manifestazione o la sanzione elettorale. Il lavoro educativo mira a condurre la popolazione/comunità: 1) a diventare capace di pensare da sola, ad avere fiducia in se stessa, ad appropriarsi del proprio patrimonio e 2) a prendere l’iniziativa e ad affermarsi come soggetto-attore-partner del proprio sviluppo.
(A.S.) A proposito degli ecomusei realmente comunitari dell’America Latina, in cosa si differenziano dagli ecomusei europei?
 (H.d.V.) Sono iniziative prese dalle comunità, spesso con l’aiuto di un facilitatore scelto dalla comunità, che è stato formato. Si può consultare: Cuauhtémoc Camarena y Teresa Morales, Manual para la creación y desarrollo de Museos Comunitarios, Fundación Interamericana de Cultura y Desarrollo, 2009, La Paz (Bolivia).
(A.S.) Leggendo i vostri testi e quelli di Paulo Freire, io ho avuto un’idea che oso condividere con te in modo semplice (forse troppo semplice, quasi un sillogismo). L’educazione nelle scuole è generalmente bancaria. Coloro che hanno ricevuto un’educazione bancaria tendono a proporre una museologia bancaria. In America Latina una certa parte della popolazione non si è adattata ai processi bancari. Questo si ha perché la scolarizzazione è meno diffusa che in Europa? O forse a causa di condizioni socio-economiche e politiche più difficili? O forse semplicemente grazie ad alcuni pensatori libertari come Freire che hanno proposto un’educazione liberatrice? O ci sono motivazioni differenti?
 (H.d.V.) I musei comunitari, i musei indigeni o autoctoni, e anche alcuni ecomusei nascono in luoghi in cui l’educazione formale pubblica è poco sviluppata (l’inizio della primaria) e soprattutto dove la posta in gioco è politica: relazioni con i poteri centrali, problemi dei territori, volontà di salvaguardare alcune forme di cultura o di culto che rischiano di essere distrutte dal “progresso”, etc. Praticamente sono le stesse popolazioni che sono state oggetto delle esperienze di Paulo Freire con i contadini del Nord-Est brasiliano (vedi: L’educazione come pratica della libertà). Questi musei sono dunque strumenti politici.
(A.S.) Nel capitolo “Conoscenza del patrimonio” del tuo libro Le radici del futuro, ci inviti a riflettere sul «concetto di complessità del patrimonio culturale, specchio della complessità della comunità e della sua cultura viva».Tu scrivi che «ogni elemento del patrimonio culturale è frutto di una complessa alchimia tra gli individui, il loro ambiente, le interazioni con gli altri individui e altri ambienti, le influenze esterne». Sono dichiarazioni di un considerevole interesse, che mi ricordano il pensiero del sociologo e teorico della complessità Edgar Morin. Anche Morin è molto interessato alle questioni educative e adotta anche lui una prospettiva multidisciplinare.
 (H.d.V.) Non ho letto quasi nulla di Edgar Morin, soltanto alcuni articoli nei giornali (io non sono affatto colto e non ho una formazione universitaria). Io reagisco e scrivo sulle mie osservazioni e sulle mie pratiche e non posso confrontare le mie idee con quelle degli intellettuali. Alcune mie frasi possono sembrare profonde, tanto meglio, ma non è intenzionale…
 (A.S.) Un’ultima domanda. Nei tuoi saggi e articoli l’influenza del pensiero di Freire è evidente quando parli di trasformazione, di cambiamento. Quando un essere umano è ben educato (coscientizzato), è pronto a trasformare la realtà, non soltanto a cercare di conservarla così com’è. È anche un concetto politico, non è vero?
 (H.d.V.) Certamente. La realtà, come il patrimonio, è in costante trasformazione. Il patrimonio “decretato” (le collezioni dei musei, i monumenti e i siti classificati) è un tesoro ma è morto poiché si vuole preservarlo eternamente (?) per il suo valore universale (?). Il patrimonio vivo, come la cultura viva, evolve con noi, è utile, può scomparire, servire ad altro, mutare il proprio significato, persino perdere il proprio senso di patrimonio in seguito a cambiamenti nei gusti e nei bisogni di una nuova generazione. Prendersi cura del patrimonio non significa solo conservarlo intatto, si tratta di renderlo utile.

venerdì 30 agosto 2019

Quelques questions à Hugues de Varine sur les écomusées, l’éducation et Paulo Freire (par Antonio Saccoccio)

Hugues de Varine è il padre e l’ideatore degli ecomusei, ed è da decenni impegnato nel promuovere lo sviluppo locale in numerosi paesi del mondo. Più volte è stato in Italia, ospite delle più importanti realtà ecomuseali.
Pubblichiamo qui di seguito l’intervista recentemente rilasciata da de Varine ad Antonio Saccoccio, direttore/coordinatore dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino, che gli ha posto alcune domande relative all’importanza dell’aspetto educativo nel processo ecomuseale. De Varine ha recentemente sviluppato alcuni di questi temi durante il seminario organizzato da ICOM Europa e ICOM CECA à Fundão (Portogallo), in cui ha presentato una relazione intitolata “Le Musée Communautaire, agent d’éducation populaire”. Saccoccio è interessato soprattutto alle idee che de Varine ha ereditato dal pensiero pedagogico di Paulo Freire. Il dialogo intrapreso su questi temi con il museologo e agente di sviluppo francese è una tappa della ricerca portata avanti dal 2013 da Saccoccio, ricerca che coinvolgerà presto altri attori del mondo ecomuseale italiano e non.
Si pubblica l’intervista nella lingua in cui è stata condotta (francese). Seguirà una traduzione italiana.
(Antonio Saccoccio) Cher Hugues de Varine, je pense que l’aspect éducatif est fondamental dans le processus des écomusées. Vous en avez aussi parlé très souvent. En particulier, vous citez souvent la pensée pédagogique de Paulo Freire. Vous l’appelez “mon maître”. Quand et comment cette prédilection est-elle née?
(Hugues De Varine) Entre 1970 et 1974, j’ai participé à titre volontaire et militant à la création et au développement d’une ONG internationale d’initiative française appelée INODEP : Institut Œcuménique pour le Développement des Peuples, fondée par des missionnaires catholiques et protestants dans l’esprit de l’encyclique Populorum Progressio et de l’un de ses rédacteurs Louis-Joseph Lebret. Nous avons choisi comme président Paulo Freire, qui était à l’époque en exil en Europe et conseiller du Conseil Œcuménique des Eglises à Genève. Il a accepté et pendant les années suivantes, non seulement il a présidé formellement l’INODEP, mais en plus il nous a enseigné ses idées et ses méthodes. Et naturellement j’ai lu ses livres traduits en français. Il nous a aidés à concevoir les objectifs et les programmes de l’INODEP, en Amérique Latine, en Afrique et aussi en Asie. Puis, lorsque j’ai quitté l’ICOM que je dirigeais pour partir prendre un job en province, j’ai quitté l’INODEP où j’avais présidé l’association française qui gérait l’ensemble.
En 1972, lorsque je préparais la Table Ronde de Santiago, j’ai demandé à Paul Freire s’il accepterait d’être le principal intervenant de la réunion, ce qu’il a accepté. Mon idée état qu’il réfléchisse au musée comme il avait réfléchi à l’école. Mais le gouvernement dictatorial brésilien a mis son veto.  Puis, j’ai revu Paulo Freire une dernière fois, un peu longuement, chez lui, à São Paulo en 1992. Et depuis, ayant beaucoup travaillé au Brésil sur des projets communautaires et patrimoniaux, j’ai retrouvé ses idées qui sont là bas très souvent mises en pratique dans de nombreux domaines. Actuellement, plusieur masters ou thèses de muséologie sont en cours à partir des idées de Paulo Feire.
(A.S.) Vous avez appris de la pensée de Paulo Freire le concept de “culture vivante”. En particulier, avec Arlindo Stefani, un de disciples de Paulo Freire, vous avez élaboré une vaste utopie intitulée “culture vivante et développement”. Qu’est ce que c’est?
(H.d.V.) C’est une idée que nous avons eue, Arlindo et moi, en France à la fin des années 70, pour expérimenter des méthodes de développement local participatif, et que nous avons appliquée sur divers projets de terrain, notamment dans des foyers de travailleurs immigrés et dans l‘habitat social. Il s’agissait de partir de l’observation participative de la vie quotidienne, par les gens eux-mêmes, pour les amener à faire naître des propositions concrètes et de les appliquer eux-mêmes au niveau de leur vie quotidienne et des territoires. Ce que nous appellerions maintenant en portugais “capacitação” ou en anglais “empowerment”. Il s’agissait de faire prendre conscience du savoir de chacun dans une démarche collective ou mutualisée, pour ensuite prendre confiance dans sa capacité de résoudre des problèmes réels mais simples, puis progressivement aller vers la solution de problèmes de plus en plus complexes. C’est un processus long et lent, très exigeant en termes de confiance, de maîtrise du langage, avec très peu de moyens techniques et le plus souvent sans aucun soutien des autorités. C’est une utopie réaliste, car nous avons montré que ça marche, mais personne n’y croit parce que de nos jours il faut toujours aller plus vite et obtenir des résultats. Cela ressemble un peu à de l’homéopathie sociale.
(A.S.) Pour ceux qui s’occupent d’écomusées, il est très important de distinguer l’éducation bancaire de l’éducation libératrice. Pourquoi?
(H.d.V.) Le musée traditionnel, comme l’école, du primaire au supérieur, a pour but d’imposer des savoirs, avec des méthodes plus ou moins sophistiquées (dites “pédagogiques”), mais procédant toujours de haut en bas. C’est une manière d’assurer chez les visiteurs la (re)connaissance d’objets, d’œuvres, de documents, de traditions, de connaissances qui ont été choisis et définis par des savants, porteurs de disciplines académiques (histoire de l’art, histoire, archéologie, ethnologie, sciences de la terre, technologies, etc.). C’est pour la plupart des visiteurs une forme d’assimilation culturelle à la haute culture. Comme l’apprentissage de la lecture ou de l’écriture à l’école, c’est important pour assurer une sorte de minimum vital, mais la culture « générale » ainsi communiquée est essentiellement morte, sauf pour quelques pourcentages des visiteurs qui ont hérité ou acquis des codes et des clés, et qui ont le temps et les moyens de les faire fonctionner. D’ailleurs, les statistiques montrent que moins de 10% de la population ont accès à ces savoirs, ne serait-ce que parce que les autres n’en éprouvent pas le besoin. Restent les touristes qui constituent la grande masse des publics des musées et des sites historiques, mais c’est une autre histoire qui relève plutôt de la curiosité et des loisirs. C’est pourquoi on peut appeler cette muséologie “bancaire”: elle accumule des connaissances, des impressions et des émotions sur des “comptes culturels” individuels qui sont plus ou moins dormants. Seuls un très petit nombre de ces comptes vont produire (être créateurs ou créatifs).
Le musée libérateur (écomusée, musée communautaire, etc.) procède autrement. Il part de la condition des gens, dans leur communauté de vie et/ou de travail, sur leur territoire, de leurs savoirs, de leurs croyances, de leurs forces d’imagination, d’initiative, de coopération, pour produire du développement social, culturel, environnemental, économique. Le patrimoine n’est pas un objectif, mais un matériau, un outil, un capital que la communauté apprend à connaître, à apprécier pour ses diverses qualités, et à utiliser ou transformer, pour répondre à ses différents besoins, en collaborant à égalité avec les pouvoirs locaux. C’est toute la question de la subsidiarité. Je connais beaucoup d’écomusées italiens qui ont déjà obtenu des résultats remarquables en respectant, parfois sans le savoir mais spontanément, ce genre de méthodes.
(A.S.) Vous avez dit que le développement soutenable exige une participation consciente et informée des citoyens. Mais la démocratie représentative habitue les citoyens à déléguer et non à participer. Comment ce problème peut-il être résolu? Est-ce un problème politique ou éducatif pour vous?
(H.d.V.) C’est essentiellement politique et on le comprend mieux quand on regarde des musées réellement communautaires, comme en Amérique Latine, ou des musées autochtones / indigènes au Brésil ou au Canada. Il n’y a que deux façons de parvenir à un développement local soutenable, donc nécessairement participatif, c’est-à-dire à la co-décision : ou bien le pouvoir (local) accepte d’être partagé avec les forces vives de la population (la communauté) ; ou bien la communauté elle-même conquiert le droit de partager la décision par la négociation, la manifestation ou la sanction électorale. Le travail d’éducation vise à amener la population/communauté : (1) à devenir capable de penser par elle-même, à avoir confiance en soi, à s’approprier son patrimoine et (2) à prendre l’initiative et à s’affirmer comme sujets-acteurs-partenaires de son développement.
(A.S.) À propos des “musées réellement communautaires” d’Amérique Latine, en quoi sont-ils différents des écomusées européens?
(H.d.V.) Ce sont des initiatives prises par les communautés, souvent avec l’aide d’un facilitateur issu de la communauté, qui a été formé. Tu peux voir: Cuauhtémoc Camarena y Teresa Morales, Manual para la creación y desarrollo de Museos Comunitarios, Fundación Interamericana de Cultura y Desarrollo, 2009, La Paz (Bolivia).
(A.S.) En lisant vos textes et ceux de Paulo Freire, j’ai eu une idée que j’ose partager avec vous de manière simple (peut-être trop simple, presque un syllogisme). L’éducation dans les écoles est généralement “bancaire”. Ceux qui ont reçu une éducation bancaire ont tendance à proposer une muséologie bancaire. En Amérique Latine une certaine partie de la population ne s’est pas adaptée aux processus bancaires. Cela se produit-il parce que la scolarisation est moins répandue qu’en Europe? Ou peut-être à cause de conditions socio-économiques et politiques plus difficiles? Ou peut-être simplement grâce à des penseurs libertaires comme Freire qui ont proposé une éducation libératrice? Ou y a-t-il des raisons différentes?
(H.d.V.) Les musées communautaires, les musées indigènes ou autochtones, et aussi certains écomusées naissent dans les endroits où l’éducation formelle publique est peu développée (début du primaire) et surtout où les enjeux sont politiques: relations avec les pouvoirs centraux, problèmes de territoires, volonté de sauvegarder des formes culturelles ou cultuelles qui risquent d’être détruites par le “progrès”, etc. Pratiquement ce sont les mêmes populations qui ont fait l’objet des expériences de Paulo Freire avec les paysans du Nord-Est brésilien (Voir l’Education, Pratique de la Liberté). Ces musées sont donc des outils politiques.
(A.S.) Dans le chapitre “Connaissance du patrimoine” de votre livre “Les racines du futur”, vous nous invitez à réfléchir sur la “notion de complexité du patrimoine, reflet de la complexité de la communauté et de sa culture vivante”. Vous écrivez que “chaque élément du patrimoine est le fruit d’une alchimie longue qui implique des individus, leur environnement, des interactions avec d’autres individus et d’autres environnements, des influences extérieures”. Ce sont des déclarations d’un intérêt considérable, qui me rappellent la pensée du sociologue et théoricien de la complexité Edgar Morin. Même Morin est très intéressé par les questions d’éducation et il adopte aussi une perspective pluridisciplinaire.
(H.d.V.) Je n’ai presque jamais rien lu d’Edgar Morin, seulement quelques articles dans les journaux (je ne suis pas du tout cultivé et je n’ai pas de formation universitaire). Je réagis et j’écris sur mes observations et mes pratiques et je ne peux pas comparer mes idées avec celles des intellectuels. Certaines de mes phrases peuvent apparaître profondes, tant mieux, mais c’est involontaire…
(A.S.) Une dernière question. Dans vos essais et vos articles l’influence de la pensée de Freire est claire lorsque vous parlez de transformation, de changement. Lorsqu’un être humain est bien éduqué (conscientisé), il est prêt à transformer la réalité, pas seulement à essayer de la garder telle qu’elle est. C’est aussi un concept politique, n’est-ce pas?
(H.d.V.) Bien sûr. La réalité, comme le patrimoine, est en transformation constante. Le patrimoine « décrété » (les collections des musées, les monuments et les sites classés) est un trésor mais il est mort puisqu’on veut le conserver éternellement (?) pour sa valeur universelle (?). Le patrimoine vivant, comme la culture vivante, évolue avec nous, il est utile, il peut disparaître, servir à autre chose, changer de signification, même perdre son sens de patrimoine à la suite de changements dans les goûts et les besoins d’une nouvelle génération. Prendre soin du patrimoine, ce n’est pas seulement le conserver intact, c’est plutôt le faire servir.
03-05/08/2019

lunedì 8 ottobre 2018

Ivan Illich e la libertà di riunione negata dalla scuola

Il diritto alla libertà di riunione è un diritto negato dalla scuola, che ci obbliga a riunirci con altre persone. Questo pensiero di Ivan Illich deve essere ben valutato, il paragone con l'esercito è tutt'altro che peregrino.

Il diritto alla libertà di riunione è da tempo riconosciuto sul piano politico e accettato sul piano culturale. Ma dobbiamo renderci conto che esso è limitato dalle leggi che rendono obbligatorie certe forme di riunione. È il caso, soprattutto, delle istituzioni che arruolano forzosamente in base all'età, alla classe o al sesso, e che assorbono grandi quantità di tempo. Un esempio è l'esercito. Un altro, ancor più scandaloso, la scuola. Descolarizzare significa abolire il potere di una persona di costringere un'altra a partecipare a una riunione.  (I. Illich, Descolarizzare la società, 1971)

giovedì 26 luglio 2018

"Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico", l'ultimo libro di Maurizio Parodi



È stato pubblicato in questi giorni, per Armando editore, un brillante saggio di Maurizio Parodi: “Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico”.  Il volume è inserito nella collana Avanguardia 21, curata da Antonio Saccoccio.
Quali sono le responsabilità della scuola rispetto al problema dell'analfabetismo funzionale sempre più diffuso? Il saggio di Maurizio Parodi (promotore, tra le altre cose, della campagna “Basta compiti!”) fornisce efficaci strumenti di lettura del “fenomeno” e concreti suggerimenti operativi per riqualificare didatticamente gli ambienti di apprendimento. Arricchiscono il volume una prefazione di Roberto Maragliano e una postfazione di Giancarlo Cavinato
Proprio le parole di Maragliano ben descrivono la peculiarità del saggio di Parodi:
«... per liberare la scuola occorrerebbe descolarizzare la cultura, a cominciare da quella accademica, e riconoscere che ci sono tanti e tanto diversi modi di concepire, praticare, insegnare, apprendere la parola parlata, quella letta, quella scritta. [...] Parodi ci aiuta a dirlo e farlo. [...] La forza politica di questo suo lavoro sta proprio in ciò, nel proporre, anzi riproporre una elaborazione compiuta sull’apprendimento linguistico, particolarmente feconda nel trentennio successivo alla seconda guerra. Compiuta ma dimenticata. O tutt’al più richiamata ma privata delle sue componenti critiche all’interno dei documenti istituzionali del presente. Lì, in quella elaborazione, c’è un preciso e drammatico atto d’accusa rivolto alla scuola stessa: se sono sgrammaticati, i giovani, è perché ne fanno non già poca, di grammatica, quanto troppa e troppo manualistica; se scrivono così male è perché le pratiche che si propongono loro non si confrontano, se non in minima parte, con i meccanismi della comunicazione pubblica; se leggono male è perché li si è condizionati fin dall’inizio ad associare lettura a esercizio pedante di analisi del testo. Questa pars destruens dell’impegno educativo era ben presente e forte nella letteratura scientifica e didattica cui Parodi fa sistematico riferimento. Basti pensare, per fare un solo nome, emblematico, a Célestin Freinet. Per costruire bisogna prima di tutto depotenziare la parte negativa dell’esistente. Vogliamo dirlo? Per  costruire occorre distruggere ciò che si oppone alla costruzione».

mercoledì 10 gennaio 2018

Quel gran fisico di Richard Feynman

Richard Feynman non è stato solo un fisico, ma un esempio per tutti coloro che amano la conoscenza e la ricerca.

Qui riportiamo una serie di sue affermazioni fondamentali sulla scuola, l'apprendimento, la ricerca: 

Non vedevo a cosa servisse un sistema di autoriproduzione nel quale si superano esami per insegnare ad altri a superare esami, senza che nessuno impari mai niente.

Nel 1965 riceve il premio Nobel e afferma: 

Non vedo per quale motivo qualcuno dell’Accademia Svedese debba decidere se questo lavoro sia abbastanza nobile da ricevere il premio. Il premio l’ho già ricevuto. Il premio è il piacere della scoperta, il contributo alla ricerca, il fatto che la gente usa il mio lavoro. Sono queste le cose reali. Le onorificenze non sono reali, secondo me. Non credo nelle onorificenze. 


Scienza è credere nell’ignoranza degli esperti.

Non so che cosa non va nella gente: non imparano usando l’intelligenza, ma solo meccanicamente o giù di lì. Il loro sapere è così fragile. 

Un principio generale della fisica è che, non importa quello che una persona pensa, è quasi sempre sbagliato. 

martedì 27 giugno 2017

Anche l'Ocse boccia la scuola italiana: "Troppi compiti a casa" (La Repubblica, 26-06-2017)

Se persino gli esperti OCSE si rendono conto del danno causato dalla "compitite" acuta, qualche passo in avanti nella consapevolezza collettiva forse la stiamo compiendo.


venerdì 14 aprile 2017

Figli della libertà: nelle sale di nuovo in missione per Gaia (di Alessio Giannetto)

Nel 2015 una stravagante famiglia ha raccontato, con il suo primo documentario dal titolo Unlearning, un viaggio durato sei mesi, senza soldi, alla ricerca di modelli diversi dalla famiglia mononucleare di città, cercandoli per lappunto in circhi, comuni ed ecovillaggi. Questo lavoro, prodotto interamente dal basso, è stato pluripremiato in molti festival europei e proiettato in oltre 110 cinema. Adesso il regista Lucio Basadonne, sua moglie Anna Pollio, assieme alla loro figlia Gaia, arrivano a presentare la loro seconda opera, frutto di unaltra avventurosa ricerca, con il loro nuovo documentario dal titolo Figli della Libertà”, proiettato in anteprima il 7 marzo in ben 37 città (altre proiezioni stanno ancora continuando a pieno ritmo in tutta Italia) grazie alla riuscita raccolta fondi preliminare mediante crowdfunding, che ha permesso loro anche questa volta di sostenere le spese di produzione. La presentazione nelle varie sale in tutta Italia è stata introdotta da educatori ed esperti che hanno collaborato dal basso alla raccolta fondi e alla promozione. A Catania il sociologo Augusto Gamuzza ha introdotto lanteprima, in una serata molto partecipata (lui stesso era tra coloro che danno la loro testimonianza allinterno del documentario) ed ha anche coordinato e animato il dibattito che ha seguito la proiezione.



“Incominciando col gustare un po’ di libertà, si finisce per volerla tutta”.
Come non stupirsi nel trovare questa citazione dellanarchico Errico Malatesta proprio allinizio della prima scena di Figli della Libertà”. Il documentario comincia la sua narrazione seguendo i legittimi dubbi che iniziano a covare Anna e Lucio nel constatare i primi risultati ottenuti dalla diversa istruzione che hanno deciso di dare a Gaia dopo laver scelto di mandarla in una scuola libertaria anziché in un classico istituto scolastico. Si viene lasciati sospesi quasi tutto il tempo, senza facili partigianerie, in uno
scenario fatto di quei dilemmi e coraggiose speranze, che inevitabilmente ogni genitore affronta quando sceglie un tipo di educazione alternativo per i propri figli. Stiamo salvando Gaia dagli effetti grandemente deleteri dellingabbiante scolarizzazione istituzionale o la stiamo condannando a trovarsi un giorno impreparata quando uscirà dallisola felice per affrontare questo difficile mondo?. Per sciogliere questi dubbi, Anna e Lucio, compiono una missione eroica, per la quale credo verranno ringraziati da tanti altri genitori che si pongono o che si porranno tali domande. Scelgono di nuovo di rimettersi in viaggio con Gaia per andare in cerca di esperti di pedagogia, pensatori, genitori, bambini e ragazzi che seguono o impartiscono pedagogie anti-autoritarie e insegnamenti di tipo parentale, fino a scovare pure chi a scuola non c’è mai andato, riuscendo lo stesso ad affermarsi nella vita. Tra queste figure troviamo il noto regista Silvano Agosti e il libertario Paolo Mottana, docente universitario di filosofia delleducazione alla Bicocca di Milano. Degno di nota inoltre è il loro essersi spinti anche nella nota scuola di Summerhill in Inghilterra, dove da quasi un secolo si applicano metodi pedagogici alternativi e anti-autoritari. Lì hanno intervistato alcuni alunni ed ex-alunni che hanno testimoniato le loro incoraggianti esperienze, ricordandoci, tra laltro, che queste pratiche, per quanto possano sembrare nuove, esistevano già dai tempi di Tolstoj. In questo itinerario sono quindi riusciti a condividerci il pensiero e le esperienze di tutti questi ricercatori, anche per cercare di rassicurare la simpatica nonna siciliana di Gaia, profondamente scettica e preoccupata rispetto alle scelte inusuali  di Lucio ed Anna. 
Pregevole è la possibilità data allo spettatore di sbirciare allinterno di questi interessanti e sfuggenti arcipelaghi sulle altre forme di pedagogia. È utile sapere che queste esperienze in Italia, secondo gli ultimi dati forniti dal ministero dellistruzione, registrano un significativo incremento. Sarebbe di certo sorpresa la nonna di Gaia nel sapere che proprio la Sicilia è in testa alla classifica rispetto alle regioni più coinvolte, soprattutto nellistruzione parentale.
Dopo la proiezione si è animato un breve dibattito che ha chiarito, attraverso le parole di Gamuzza, come sia necessario un percorso di approfondimento teorico e metodologico sulle questioni relative alle pratiche di educazione alternativa in Italia. Obiettivo che si inserisce in un percorso di ricerca intrapreso dalla cattedra di Sociologia del Dipartimento di Scienze della Formazione dellUniversità di Catania al fine di contestualizzare scientificamente le tante esperienze e scelte familiari che cominciano a prendere piede e che meritano maggiore studio.
A riprova di questo fermento, stando sempre ai numeri diffusi dal ministero riguardo la nostra isola, il 1718 settembre 2016 si è tenuto il secondo Meeting Homeschooling Sicilia, a San Saba, in provincia di Messina; mentre si terrà un nuovo raduno della Rete Scuola Famigliare dal 15 al 21 aprile a Piedimonte Etneo. La stimolante visione di questo documentario ci interroga sul come porsi rispetto alle prassi di scolarizzazione autoritaria e ai gravi effetti sociali ed esistenziali che ne derivano e che spesso tutti portiamo ancora sulle spalle. Figli della Libertà” sicuramente è un ottimo strumento di riflessione e ci spinge in qualche modo a intraprendere, ognuno per quel che può, qualche altra importante eroica missione.

Alessio Giannetto

giovedì 30 marzo 2017

La scuola è una struttura di disciplinamento (Paolo Mottana)

La scuola è una struttura di disciplinamento. Questo è un fatto che noi non possiamo disconoscere. Tutto il suo dispositivo, tutto il sistema di regole, di procedure, di orari, di tempi, di spazi, tutto questo lavora per disciplinare i corpi, per renderli docili, per far sì che obbediscano, perché diventino dei sudditi. Il sistema di valutazione non verrà mai tolto dalla scuola perché è il sistema attraverso su cui si impara ad avere paura dell’autorità e a fare le cose anche se non ci piacciono. La scuola funziona solo con il sistema di valutazione. Togliamo la valutazione e la scuola cade come un castello di carte. È evidente questo. Quindi, o si cambia la struttura e si entra in un’altra dimensione e si comincia a pensare alla vita dei bambini e dei ragazzi in un’altra chiave, ci si pone altri interrogativi, che sono quelli che poi vedremo, oppure si resta intrappolati in contraddizioni insanabili.



[ tratto da Paolo Mottana, Tutta un'altra educazione, in "Educazione Aperta", n. 1, inverno 2017, pp. 24-31: http://educazioneaperta.it/wp-content/uploads/2017/03/EA_1_2017.pdf ]

giovedì 2 marzo 2017

Educazione Aperta, una rivista per aprire la scuola

E' uscito il numero 1 di "Educazione aperta", una rivista che diventerà un punto di riferimento per l'educazione libertaria. I contributi di questo primo numero sono molto significativi. Questo l'indice:

La Comunità di Ricerca, Editoriale

PRIMOPIANO / FUORI REGISTRO. LA SCUOLA CHE CAMBIA DAL BASSO
A. Crippa, Presentazione
L. Mastrorocco, Introduzione
R. Rostagno, Manifesto per una rivoluzione della scuola
P. Mottana, Tutta un’altra educazione
A. Vigilante, Costruire una scuola dialogica. La Maieutica Reciproca
C. Moreno, La relazione educativa è pericolosa?
A. Hiribarren, Présentation du Collège Clisthène (Bordeaux)
E. Zecchi, Project Based Learning
M. Bianchini, V. Giovannini, Scuola-città Pestalozzi di Firenze.Un percorso di innovazione didattica e organizzativa: dalla scuola laboratorio alla wikischool
A. Patti, Keep calm: è solo un FabLab
P.P. Traversari, Apprendere dall’esperienza. Campus di lavoro nell’Arcipelago Toscano
E. Martinelli, Cambiare la scuola davvero si può: don Milani insegna ancora
M. Ridolfi, Raccontar di Mario Lodi. Un maestro che insegna a costruire insieme

ESPERIENZE & STUDI
D. Buraschi, F. Amoraga Montesinos, N. Oldano, Dialogo e trasformazione nei processi partecipativi. L’esperienza dei laboratori dialogici nelle Isole Canarie
C. Secci, La scuola popolare: esperienza peculiare dell’educazione degli adulti in Italia. Significati storici e prospettive future
F. Gambassi, Un futuro senza scuola? Proposte per salvarsi dalla descolarizzazione
A. Saccoccio, Critica e superamento della valutazione quantitativa
R. Palma, Dream Project. La democrazia affettiva entra nelle scuole
E. Bottero, Costruire la scuola come spazio pubblico
G. Monaca, Bimbisvegli. Una scuola per piccoli che pensano in grande

BLOG
F. Chiantese,  Il teatro come artigianato delle relazioni
P. Fasce,  L’errore di reazione: refrattari al pensiero scientifico
P. Vittoria,  Tutte le bugie su Cuba
M. Parodi, Per un giuramento del docente
A. Vigilante, Marx o il Buddha?
M. Mundi, Ti darò il sole. Un libro per costruire traballanti piramidi umane

La rivista si può leggere e scaricare gratuitamente a questo link
Si può acquistare la copia cartacea su Amazon.

mercoledì 11 maggio 2016

Boicottaggio test INVALSI 2016 (volantini da scaricare creati dall'Unione degli Studenti)

L'Unione degli Studenti, unitamente alla Lettera degli studenti ai docenti, di cui abbiamo già parlato, ha diffuso semplici volantini per ricordare a tutti le modalità per opporsi alla somministrazione dei test INVALSI. 



giovedì 5 maggio 2016

Con l'Unione degli Studenti e contro i test Invalsi: stop allo studente-numero

È partita anche quest’anno la sacrosanta campagna per boicottare i test Invalsi che si svolgeranno il 12 maggio. Tra i più motivati e accesi sostenitori della battaglia anti-Invalsi troviamo ancora una volta le ragazze e i ragazzi dell’Unionedegli Studenti, capaci di un’azione sapiente, coordinata e realmente meritevole del più ampio sostegno possibile.
L’Unione degli Studenti ha diffuso una Lettera ai docenti per lottare assieme contro i test Invalsi, in cui non solo si invita a boicottare i test, ma si invitano i docenti in quelle ore a intavolare con i ragazzi un dibattito sul tema della valutazione.

Nella lettera si legge una sentenza definitiva contro la valutazione numerica:
La scuola che boccia, che esclude e che costringe il campo della valutazione ad un singolo numero, ha fallito e non ha un riscontro positivo nelle classi e tra noi studenti.
Ma si aggiunge anche la proposta di una nuova visione della valutazione, una valutazione narrativa:
Noi da anni pensiamo a qualcosa di diverso e tentiamo di immaginare una valutazione alternativa che non serva solo a schedare e a banalizzare il percorso formativo riducendolo ad un singolo numero. È proprio per tutto questo che proponiamo una valutazione narrativa che consideri complessivamente lo studente con il suo bagaglio culturale, le sue passioni, le sue attitudini, le sue potenzialità e i suoi miglioramenti. Vogliamo che la scuola ci stimoli, ci aiuti e ci sostenga, non vogliamo che ci classifichi e che ci abitui alla competizione, all’individualismo e al conformismo, non vogliamo una scuola attenta solo al risultato finale e non al percorso conoscitivo ed educativo. Non vogliamo essere schedati, né essere considerati solo numeri, ma vogliamo essere valutati per quello che siamo e che sappiamo.
Infine, ecco l’appello ai docenti per unire le forze:

Cari docenti, vi chiediamo di costruire con noi prima e durante il 12 maggio momenti di dibattito, perché riteniamo imprescindibile condurre questa battaglia insieme. Siamo le studentesse e gli studenti che ogni giorno vedete crescere davanti ai vostri occhi; siamo le studentesse e gli studenti che pretendono che la scuola pubblica fornisca loro competenze critiche e non solo abilità quantificabili e nozioni; siamo le studentesse e gli studenti che ogni giorno interrogate nelle vostre classi su materie per nulla attinenti con questi test INVALSI. Crediamo che una valutazione del sistema per individuarne le lacune sia necessaria, ma per noi la valutazione è un’altra cosa: non una schedatura, ma una presa di coscienza e responsabilità collettiva; non il criterio per assegnare premi o formulare assurde frasi fatte sul divario nord/sud, ma un dato per promuovere scelte politiche di inversione di tendenza. Vi chiediamo di discuterne con noi nelle classi quando consegneremo le prove in bianco, trasformando le ore dedicate al test in ore di dibattito propositivo sulla nostra idea alternativa di scuola.


Ancora una volta, l’Unione degli Studenti mostra di avere una visione assai più evoluta rispetto a quella di chi governa il Paese. La proposta di una valutazione narrativa è un primo grande passo per uscire fuori dalla dittatura della valutazione e dell’ottusa meritocrazia. 

Invitiamo tutti i docenti libertari a trovare punti di contatto con l’Unione degli Studenti, per unire realmente tutti coloro che si oppongono alla scuola-carcere contemporanea. Sono questi giovani la nostra speranza per un futuro libero dall'attuale schiavitù produttivistica. Il 12 maggio non lasciamoli soli.
Antonio Saccoccio



giovedì 4 febbraio 2016

Le sette lezioni di John Taylor Gatto: 7. Non ci si può nascondere

7. NON CI SI PUÒ NASCONDERE

La settima lezione che insegno è che non ci si può nascondere. Io insegno ai bambini che sono sempre tenuti d’occhio, che ognuno è sorvegliato costantemente da me e dai miei colleghi. Non esistono spazi privati per i bambini, non esiste del tempo privato. Il cambio di classe dura trecento secondi per mantenere a livelli bassi la socializzazione indiscriminata. Gli studenti vengono incoraggiati a spettegolare su loro stessi o anche sui propri genitori. Naturalmente io incoraggio i genitori anche a prendere nota della cocciutaggine del proprio figlio. Una famiglia addestrata a fare la spia su se stessa è improbabile che nasconda eventuali segreti pericolosi. Io assegno un tipo di istruzione allargata chiamata “compiti a casa”, di modo che l’effetto della sorveglianza, se non quella stessa sorveglianza, si rechi nella sfera privata delle famiglie, dove gli studenti altrimenti potrebbero usare il tempo libero per imparare qualcosa di non autorizzato da un padre o da una madre, esplorando, o facendo pratica da qualche persona saggia del vicinato. La slealtà nei confronti dell’idea di istruzione è un diavolo sempre pronto a trovare un lavoro per mani oziose. Il significato della sorveglianza costante e della negazione della privacy è che non si può aver fiducia di nessuno, che la privacy non è lecita. La sorveglianza è un antico imperativo, sposato da certi pensatori influenti, una prescrizione fondamentale messa per iscritto nella Repubblica, nella Città di Dio, nell’Istituzione della religione cristiana, nella Nuova Atlantide, nel Leviatano, e in un mucchio di altre opere. Tutti questi uomini senza figli che scrissero questi libri scoprirono la stessa cosa: i bambini devono essere controllati da vicino, se si vuole mantenere una società sotto uno stretto controllo centrale. I bambini seguiranno un percussionista solitario se non si riesce ad inserirli in una banda uniformata.

John Taylor Gatto

giovedì 15 ottobre 2015

Le sette lezioni di John Taylor Gatto: 6. Autostima provvisoria

6. AUTOSTIMA PROVVISORIA

La sesta lezione che insegno è quella dell’autostima provvisoria. Se avete mai provato a lottare con un ragazzo giunto al livello in cui i genitori lo hanno convinto a credere che lo ameranno malgrado tutto, sapete già quanto impossibile sia riuscire a conformare gli spiriti che sono sicuri di sé. Il nostro mondo non sopravvivrebbe a lungo ad un’alluvione di persone sicure di sé, quindi io insegno che il rispetto di sé dovrebbe essere subordinato all’opinione di un esperto. I miei ragazzi sono costantemente valutati e giudicati. Una relazione mensile, la cui preparazione è impressionante, viene inviata a casa degli studenti per segnalare l’approvazione o per indicare esattamente, fino ad un particolare punto percentuale, quanto dovrebbero essere scontenti i genitori dei loro figli. L’ecologia della “buona” istruzione dipende dal fatto di perpetuare l’insoddisfazione, proprio quanto l’economia commerciale dipende dallo stesso fertilizzante. Benché alcune persone possano essere sorprese di quanto poco tempo o riflessione ci voglia per raggiungere questi record matematici, il peso complessivo di documenti apparentemente oggettivi stabilisce un profilo che obbliga i bambini a giungere a certe decisioni su loro stessi ed il loro futuro basate sul giudizio accidentale di un estraneo. L’auto-valutazione, argomento principale di ogni grande sistema filosofico che sia mai apparso sul pianeta, non è mai considerata un fattore. La lezione delle pagelle, dei voti, e degli esami è che i bambini non dovrebbero aver fiducia in se stessi o nei loro genitori, ma dovrebbero invece fare affidamento sulla valutazione di funzionari certificati. La gente ha bisogno di sentirsi dire quanto vale.

John Taylor Gatto