Nell’allegra e appassionata baraonda del nostro liceo, però, non è
affatto vero che non si studiasse. Semplicemente, lo studio era una scelta
personale e si concretizzava attraverso un preciso atto di volontà. Pochi
studiavano tutto, alcuni solo alcune materie. Ma oltre a quelle curricolari
della mattina c’erano le attività pomeridiane, ed era impossibile che qualcuno
non amasse almeno qualcosa. Teatro e musica avevano insegnanti straordinari
(Wilda Ciurlo e Meri Franco Lao), c’era fotografia, psicologia, architettura,
sociologia, economia, pedagogia, ceramica, storia delle religioni, e chissà
quante altre materie che ora non ricordo, c’era un cineclub dove ho visto tutto
Buñuel e tutto Bergman. Spesso venivano
ospiti esterni a tenere incontri o seminari (ricordo per esempio una
straordinaria analisi dello stile musicale di Beethoven proposta non so più da
chi) o semplicemente a parlare della loro esperienza (ricordo Ferruccio Parri,
ricordo Cancrini). Quella che in burocratese si chiama oggi “offerta formativa”
era una foresta tropicale lussureggiante di proposte, inviti, suggerimenti e
adescamenti, possibilità illimitate promettenti tutto lo scibile umano, una
specie di paradiso terrestre del sapere, dove potevamo annoiarci a volontà
allungando una mano distrattamente per prendere il frutto più vicino e maturo.
Gli insegnanti cercavano di fare lezioni tradizionali, rese molto frammentarie
dalle condizioni di gestione complessive, ma erano a disposizione dei singoli.
A disposizione nel senso più pieno: per esempio, l’ultimo anno mi sono
appassionato di filosofia, e con la mia prof ho passato molti giorni in
biblioteca fuori dell’orario scolastico a leggere la Critica della Ragion Pratica, commentata da lei per me, passo per
passo, interamente. E così poteva essere, volendo, per ogni materia, per ogni
cosa.
Quando il tempo era buono spesso si stava all’aperto. La sede di via
della Bufalotta era stata una colonia agricola, c’era un ampio uliveto alle
spalle dell’edificio e lì si rimaneva spesso sdraiati sull’erba. Ricordo un “corso
sull’erba” su Thomas Mann, tenuto da Carlo Illuminati ,
bellissimo. Ogni tanto arrivavano delle mucche, e talvolta si mettevano a
correre causando un fuggi fuggi collettivo. Oltre alle mucche c’erano gli
amatissimi cani randagi adottati dalla scuola (fra cui l’indimenticabile
Iskra), che d’estate disturbavano le greggi che passavano da quelle parti (ho
ancora in mente l’immagine di un pastore, in cioce, arrabbiatissimo in attesa
di fronte alla porta chiusa della presidenza) e d’inverno, con la pioggia,
venivano ad asciugarsi all’interno (l’unica proibizione davvero rispettata
nella scuola era il divieto per i cani di scrollarsi in biblioteca). Era di
fatto possibile entrare e uscire dalla classe e dalla scuola liberamente - in
realtà bastava rispettare le comuni regole d’educazione, che vogliono che quando
uno si allontana da un gruppo accenni al motivo e saluti. Le giustificazioni,
obbligatorie, erano un mero ornamento burocratico a una realtà di rapporti
fondata sulla conoscenza reciproca, che implicava il rispetto per la libertà di
ciascuno, compresa quella di sbagliare deliberatamente. Tutto l’anno qui e là e
sotto il portico, a ogni ora, si potevano trovare coppie che si baciavano.
Ora, tutto questo sembra assurdo eppure era scuola, nel senso più
ampio possibile. Per alcuni, come me, è stato anche studio. Sbagliando - posso
ben dirlo, a posteriori - ho studiato solo le materie umanistiche, non
frequentando neppure un’ora di scienze naturali, di fisica e di matematica per
tre anni (meno delle quattro materie che secondo il Regolamento avrebbero
potuto condurre a bocciatura), ma quello che ho studiato l’ho studiato
intensamente e appassionatamente. Qualcosa di ciò che richiede esercizio l’ho
imparato, lì a scuola, da autodidatta (per esempio a scrivere) e altro non l’ho
imparato - troppo scarso, per esempio, è stato il lavoro su latino e greco per
consolidare quanto fatto in classe. Così, moltissimo di ciò che avrei dovuto
assimilare al liceo l’ho appreso più tardi, durante l’università e dopo,
rimpiangendo via via di non averlo studiato allora. Certamente però in una
scuola tradizionale sarei rimasto bloccato dall’angoscia e dalla ribellione e
non avrei combinato nulla.
Per molti altri miei compagni invece il Liceo Sperimentale non è stato
altrettanto positivo. Il tempo perso, gli spazi illimitati di distrazione, la
dispersione in troppe materie, la mancanza di quegli esercizi che permettono
alla fine di possedere una pratica intellettuale, lo spazio grandissimo preso
dall’attività politica, l’impegno richiesto dalla gestione assembleare di ogni
singolo atto, ma soprattutto l’assenza di qualunque forma di disciplina che non
fosse autodisciplina, non hanno permesso ad alcuni di imparare ciò che
avrebbero potuto e voluto imparare; per altri non è stato possibile neppure
intuire che c’era qualcosa di interessante da imparare. Troppa confusione
attorno. Non è detto, però, che l’esperienza dello Sperimentale non abbia
insegnato anche a loro qualcosa.
Nel 1979 il Liceo Sperimentale venne chiuso. I tempi erano cambiati.
Ciò non significa che il Liceo Sperimentale non abbia influito in
alcun senso sulla nostra crescita. Oggi c’è una pagina FB che riunisce un folto
gruppo di ex-allievi e professori del Liceo Unitario Sperimentale; lì (oltre
che sul sito creato da Roberto Renzetti) si possono trovare foto e qualche
commento su quanto vissuto allora. In un post di quelle pagine c’è un’osservazione
del mio amico e compagno di scuola Marco Tocilj che considero preziosa. Parlando
dell’esperienza rappresentata per ciascuno di noi dallo Sperimentale, cita un
proverbio africano: «Per
educare un bambino ci vuole un villaggio», e chiosa: «l'essere cresciuto in un
"villaggio di matti" mi ha molto aiutato ad interagire con la follia
del mondo, quella degli altri e pure con la mia». Se una scuola disciplinata e
produttiva insegna quale sia il proprio posto in un universo ben perimetrato,
ordinato ed efficiente, lo Sperimentale ha insegnato piuttosto a muoversi in un
mondo aperto, confuso ma ricco di stimoli, contraddittorio, dove le regole sono
inefficaci, in cui i desideri personali hanno uno spazio esagerato, i diritti
altrui uno spazio ancora maggiore, e ogni cosa va quindi discussa, un mondo in
cui i doveri sono impegni e scelte personali, responsabilità intime, decisioni
cresciute fra sé e sé. Lo Sperimentale ha insegnato a dialogare e a discutere
non solo quando ci si comprende ma anche quando non si conosce la lingua
dell’interlocutore - che magari sei tu stesso. Più in generale, a non sentirsi
a disagio e in pericolo nel mare aperto della libertà.
Non è stato
un modello replicabile. Piuttosto, è stata un’esperienza importante e da non
dimenticare.
(di Giulio Savelli)
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