Miguel Benasayag è certamente un'intelligenza acuta e vivace. Ma ciò che ci piace maggiormente è che la sua è un'intelligenza militante, che combatte per una visione del mondo. Benasayag è un filosofo, ma non è un filosofo che se ne sta seduto dietro la sua cattedra, è un filosofo che è sceso e scende ancora in campo concretamente, incidendo nella realtà di ogni giorno (militante guevarista, dieci anni di carcere alle spalle). Il suo testo più noto è probabilmente Elogio del conflitto, in cui ha sostenuto con radicalità che la società postmoderna ha di fatto bandito ogni idea di conflittualità. Comprendere l'importanza della componente conflittuale in un mondo che di fatto cerca di annullare ogni tentativo di porsi in opposizione del sistema (o dei sistemi) di valori dominanti, non è da tutti. Viviamo momenti in cui parlare di "conflitti" sembra essere sempre politicamente scorretto. E senza conflitto non ci può essere superamento, senza conflitto c'è il trionfo dello status quo.
Qualche giorno fa, in un intervento all'Università La Sapienza di Roma, (l'occasione era un convegno dell'ADI) Benasayag ha colto tutti di sorpresa, riducendo in cenere la pedagogia delle competenze e il costruttivismo, tanto in voga negli ultimi decenni nella pedagogia contemporanea. Scuola delle competenze e costruttivismo sono figli dell'utilitarismo contemporaneo, della deriva economicistica e producono deterritorializzazione e alienazione. Sconcerto, sbandamento, frustrazione in sala: la didattica per competenze e il costruttivismo in un'oretta scarsa passano da salvezza a rovina della scuola. Il nemico non sono più il trasmissivismo e l'accumulo di conoscenze, ma il costruttivismo e la didattica per competenze. Il filosofo riesce a convincere larga parte dell'uditorio, ma non sfugge ai più attenti un uso "ad una dimensione" dei termini "competenze" e "costruttivismo", termini sicuramente sfuggenti e non da ora. Se è indubbio, infatti, che se pensati da uomini di scarso spessore i due termini sono realmente frutto di una visione tecnicamente utilitaristica e quindi poverissima della scuola (ma il discorso è noto da tempo agli spiriti illuminati, non ci vogliono certo filosofi per portarlo alla luce), non si può non notare che in altro modo la competenza e il costruttivismo possono esserei modi per liberare almeno parzialmente lo studente dall'autoritarismo, dal valutazionismo, dal rigidismo della scuola-dinosauro contemporanea. Insomma, Benasayag si scaglia (e conoscendo le sue posizioni ideologiche è comprensibile) contro competenze e costruttivismo viste come trattamento educativo dell'"uomo economico".
In realtà per noi il problema reale non è la scelta tra trasmissione o costruzione del sapere. Il problema è l'istituzione scuola concepita come luogo in cui produrre uomini regolarmente monodimensionali, i cui apprendimenti siano perfettamente misurabili per essere inseriti nella catena di montaggio dell'alienazione planetaria.
Benasayag non è un pedagogista, ma lo è la sua collaboratrice più stretta, Angelique Del Rey, che ha chiarito in un suo documento:
Qualche giorno fa, in un intervento all'Università La Sapienza di Roma, (l'occasione era un convegno dell'ADI) Benasayag ha colto tutti di sorpresa, riducendo in cenere la pedagogia delle competenze e il costruttivismo, tanto in voga negli ultimi decenni nella pedagogia contemporanea. Scuola delle competenze e costruttivismo sono figli dell'utilitarismo contemporaneo, della deriva economicistica e producono deterritorializzazione e alienazione. Sconcerto, sbandamento, frustrazione in sala: la didattica per competenze e il costruttivismo in un'oretta scarsa passano da salvezza a rovina della scuola. Il nemico non sono più il trasmissivismo e l'accumulo di conoscenze, ma il costruttivismo e la didattica per competenze. Il filosofo riesce a convincere larga parte dell'uditorio, ma non sfugge ai più attenti un uso "ad una dimensione" dei termini "competenze" e "costruttivismo", termini sicuramente sfuggenti e non da ora. Se è indubbio, infatti, che se pensati da uomini di scarso spessore i due termini sono realmente frutto di una visione tecnicamente utilitaristica e quindi poverissima della scuola (ma il discorso è noto da tempo agli spiriti illuminati, non ci vogliono certo filosofi per portarlo alla luce), non si può non notare che in altro modo la competenza e il costruttivismo possono esserei modi per liberare almeno parzialmente lo studente dall'autoritarismo, dal valutazionismo, dal rigidismo della scuola-dinosauro contemporanea. Insomma, Benasayag si scaglia (e conoscendo le sue posizioni ideologiche è comprensibile) contro competenze e costruttivismo viste come trattamento educativo dell'"uomo economico".
In realtà per noi il problema reale non è la scelta tra trasmissione o costruzione del sapere. Il problema è l'istituzione scuola concepita come luogo in cui produrre uomini regolarmente monodimensionali, i cui apprendimenti siano perfettamente misurabili per essere inseriti nella catena di montaggio dell'alienazione planetaria.
Benasayag non è un pedagogista, ma lo è la sua collaboratrice più stretta, Angelique Del Rey, che ha chiarito in un suo documento:
Una tale visione (quella del PISA e dell'approccio per competenze) definisce l'immagine di un uomo da educare, ripiegato su se stesso all'interno della nozione di competenza e ci spiega la svolta delle pedagogie attive verso il profitto e l'efficienza. L'uomo da educare è un "uomo senza qualità", sul quale applicare le competenze per il successo nella vita, tralasciando desideri, affinità elettive, tropismi e qualità intrinseche, sostituiti ad un'educazione emancipatrice che permette allo studente di essere attivo e di educarsi mentre viene educato. Si tratta di un'educazione alienante, che gli impone non solo dei contenuti e dei comportamenti normativi, ma che pretende che questi vi aderisca liberamente!
Alla luce di tutto questo, l'insegnante si chiede "Cosa devo fare allora? Se il trasmissivismo è inutile e dannoso e il costruttivismo è figlio dell'utilitarismo economicistico, cosa devo insegnare?".
La risposta sarebbe chiara, ma nessuno vuole farci i conti. Il problema è una scuola che vuole ridurre le differenze, non tenere in considerazione e rispettare le singole qualità, misurare ciò che sa e sa fare un ragazzo come fosse un animale da allevamento e produzione. Ecco che allora può davvero tornare utile (e al di là delle sue intenzioni) l'elogio del conflitto di Benasayag: la scuola non deve ridurre i conflitti, non deve normalizzare chi è differente, perchè eliminando le possibilità di conflitto si elimina la possibilità di produrre soluzioni alternative al sistema dominante.
E' chiaro che le pedagogie attive sono più evolute rispetto alle pedagogie passive, ma è altrettanto chiaro che le pedagogie realmente attive devono essere pedagogie libertarie, devono essere in pochi termini delle anti-pedagogie. E inoltre: non si può pretendere ad un insegnante che è servo e servile dentro di educare i giovani alla libertà. Non ci sarà nessuna teoria pedagogica in grado di rendere libero chi è abituato da sempre ad ubbidire e abbassare la testa.
Il problema non è quindi la scuola delle competenze. Il problema è la scuola come istituzione repressiva, autoritaria e reazionaria.
E allora - torniamo - cosa può fare un insegnante? L'abbiamo detto più volte e da tempo: autonomia creativa (perchè non può esistere educazione senza educazione all'autonomia), costruttivismo critico (che è altra cosa rispetto al costruttivismo modaiolo), scuola-vita.
Descolarizzare operando dentro il sistema non è possibile, ma è almeno nostro dovere sabotare in ogni modo la scolarizzazione e l'inebetimento di massa.
La risposta sarebbe chiara, ma nessuno vuole farci i conti. Il problema è una scuola che vuole ridurre le differenze, non tenere in considerazione e rispettare le singole qualità, misurare ciò che sa e sa fare un ragazzo come fosse un animale da allevamento e produzione. Ecco che allora può davvero tornare utile (e al di là delle sue intenzioni) l'elogio del conflitto di Benasayag: la scuola non deve ridurre i conflitti, non deve normalizzare chi è differente, perchè eliminando le possibilità di conflitto si elimina la possibilità di produrre soluzioni alternative al sistema dominante.
E' chiaro che le pedagogie attive sono più evolute rispetto alle pedagogie passive, ma è altrettanto chiaro che le pedagogie realmente attive devono essere pedagogie libertarie, devono essere in pochi termini delle anti-pedagogie. E inoltre: non si può pretendere ad un insegnante che è servo e servile dentro di educare i giovani alla libertà. Non ci sarà nessuna teoria pedagogica in grado di rendere libero chi è abituato da sempre ad ubbidire e abbassare la testa.
Il problema non è quindi la scuola delle competenze. Il problema è la scuola come istituzione repressiva, autoritaria e reazionaria.
E allora - torniamo - cosa può fare un insegnante? L'abbiamo detto più volte e da tempo: autonomia creativa (perchè non può esistere educazione senza educazione all'autonomia), costruttivismo critico (che è altra cosa rispetto al costruttivismo modaiolo), scuola-vita.
Descolarizzare operando dentro il sistema non è possibile, ma è almeno nostro dovere sabotare in ogni modo la scolarizzazione e l'inebetimento di massa.
Antonio Saccoccio
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